Un ritardo di diversi anni da recuperare in fretta con lo sguardo puntato sul futuro e sulle opportunità offerte dalla disciplina: la fisiatria interventistica è in fermento, i giovani medici sono animati da una gran voglia di fare e sperimentare e le prospettive appaiono molto interessanti. Tra le “guide” di questo processo di cambiamento c’è il dottor Carlo Mariconda, responsabile della struttura complessa di Recupero e Rieducazione Funzionale dell’Ospedale Humanitas Gradenigo di Torino, che però mette in guardia: “Cerchiamo di non ricadere in alcuni errori del passato”.
Dottor Mariconda, com’è cambiata negli ultimi anni la fisiatria interventistica?
“Rispetto ai paesi anglosassoni siamo arrivati in ritardo di circa 15 anni. In Italia ho lanciato la proposta di occuparsi di fisiatria interventistica nel 2011. All’inizio è stata accolta con sentimenti contrastanti di entusiasmo e scetticismo. Oggi c’è una maggiore consapevolezza da parte della Società Italiana di Medicina Fisica e Riabilitativa, ma soprattutto una grandissima spinta ‘progressista’ da parte di giovani fisiatri e degli specializzandi. Quello che andava fatto era permeare i giovani: esserci riuscito mi rende felice. Le innovazioni sono più semplici da trasmettere a chi ha più entusiasmo, mentre risulta più difficile con chi ha già un’esperienza consolidata”.
Può definire il ruolo del fisiatra nell’ambito della medicina fisica e riabilitativa?
“Storicamente il fisiatra ha sempre avuto un ruolo centrale, quello prescrittivo e di controllo delle attività riabilitative. Oggi invece assistiamo a una profonda trasformazione: la nostra funzione non è più solo questa, soprattutto nelle attività ambulatoriali come quelle incentrate sul trattamento delle disabilità minori dell’apparato muscolo-scheletrico. Ed è anche un discorso di economia sanitaria: gli amministratori promuovono nuovi modelli di organizzazione volti alla razionalizzazione delle risorse e ciò significa che avere un prescrittore e un esecutore tecnico non sarà più sostenibile dal punto di vista economico. Il fisiatra deve quindi riappropriarsi del suo ruolo più clinico con un deciso approccio terapeutico ‘manu medica’. Se il paziente vede il fisiatra solo come un ‘passaggio burocratico’ per avere la prescrizione prima di andare dal fisioterapista, il medico perde la centralità del suo ruolo clinico”.
A questo proposito, la gente ha ben chiara la differenza tra fisiatra e fisioterapista?
“C’è ancora un po’ di confusione, non solo tra i pazienti, ma anche tra alcuni colleghi. Attualmente i fisioterapisti sono dottori in Scienze della Riabilitazione, questo può ingenerare qualche dubbio. Il medico è l’unico che può fare diagnosi e proporre l’indirizzo terapeutico generale, ma è necessario che vi siano diverse figure che collaborano all’interno del team riabilitativo. Il fisiatra non è un patologo, non si occupa di un organo specifico, ma di disabilità, il suo ruolo è trasversale, quindi può sembrare più sfumato”.
In quale caso un paziente deve rivolgersi al fisiatra?
“Il campanello d’allarme per una patologia a carico dell’apparato muscolo-scheletrico è il dolore, che può portare alla disabilità quando si trasforma in una sindrome dolorosa cronica di intensità severa. La prima tappa del percorso riabilitativo è il controllo del dolore. Storicamente il fisiatra ha perseguito questo obiettivo utilizzando le terapie fisiche strumentali a somministrazione percutanea (ionoforesi, correnti diadinamiche, tens e altre). Oggi disponiamo anche di procedure mininvasive che abbiamo importato dai paesi anglosassoni e che prevedono una somministrazione percutanea utilizzando degli aghi. La finalità però non cambia: si tratta di mezzi che facilitano il recupero funzionale”.
È questa la fisiatria interventistica? Presuppone un approccio integrato con altre discipline e/o altri professionisti? Perché?
“L’interventistica si suddivide in due grandi categorie: intravascolare, che è salvavita con funzione di emergenza come avviene con un’angioplastica dopo un infarto, ed extravascolare, con funzione di supporto come le tecniche ablative o le procedure antalgiche somministrate dai terapisti del dolore al sistema nervoso centrale, autonomo e periferico. Tra le procedure di supporto ci sono alcune tecniche mininvasive applicabili nell’ambito muscolo-scheletrico ed è qui che entrano in campo i fisiatri. È un approccio che ci distingue perché appartiene a un progetto riabilitativo ed è una nuova opportunità, colta dai giovani.
Cosa significa ‘progetto riabilitativo’?
“È un percorso più lungo, non è limitato a una singola applicazione. È un approccio interdisciplinare con obiettivi progressivi tesi a ridurre, o eliminare quando possibile, la disabilità. Questo approccio deve essere messo a disposizione delle altre branche specialistiche. Ecco la trasversalità della medicina riabilitativa”.
Arrivati a questo punto non possiamo non parlare di futuro. Cosa c’è da aspettarsi?
“C’è fermento ed entusiasmo. Per me è motivo di orgoglio essere stato uno dei primi a utilizzare queste nuove tecniche. Non posso però nascondere di avere un timore per il futuro. Siamo arrivati con un ritardo di anni e non dobbiamo accumularne altro nel prendere consapevolezza delle potenzialità della radioscopia. Finora ci siamo concentrati molto sulle tecniche ecoguidate: nell’esecuzione delle procedure di fisiatria interventistica, l’ago va controllato. Il mezzo più semplice per farlo è l’ecografo e la tendenza è un po’ questa. Però ci sono metodiche che necessitano della radioscopia attraverso l’uso di un apparecchio radiologico, l’amplificatore di brillanza. Abbiamo le capacità di usarlo, le competenze tecniche non devono diventare subalterne alle difficoltà organizzative. Se però non ci lanciamo, restiamo ancora indietro: il bagaglio culturale permetterà di superare pregiudizi e risolvere i problemi strutturali e organizzativi. Ecco perché i giovani fanno la differenza. Nella Struttura Complessa da me diretta utilizziamo la radioscopia e molti la frequentano con entusiasmo per imparare. Questo è un enorme stimolo per tutto il team torinese di Humanitas e, penso, una ricchezza per il mondo riabilitativo italiano”.